lunedì 25 luglio 2011

Pezzi da 90



Non sapevo fosse morta.
Ieri accendo il pc, mi collego alla rete e mi compare lei in primo piano, con i tatuaggi, la magrezza, l’acconciatura inconfondibile, l’ombretto nero allungato fin quasi alle tempie. Accanto una scritta nera in grassetto (in Times New Roman, il più meccanico): “Morta la cantante Amy Winehouse”.

È vero, la settimana ha partorito notizie decisamente più feroci, basti pensare a quel folle che in Norvegia (l’esemplare Norvegia) ha fatto fuori un’ottantina di poveri disgraziati, tutto da solo e in meno di un pomeriggio.
Però a me quell’annuncio di morte della Winehouse ha fatto un certo effetto, mi è rimbalzato in pancia, come rimbalzano ora tutti i commenti, le ipotesi, le congetture. Tutti devono capire se in casa era sola, se i manager hanno responsabilità, se il mix di sostanze che l’ha stroncata aveva in percentuale più eroina o cocaina.
Quello che, invece, cerco di capire io è come diavolo sia possibile che una ragazza inglese di 27 anni, dal talento soprannaturale, dalle corde vocali toccate da Dio e dal successo planetario, abbia fatto e disfatto tutto da sé. Esseri umani così naturalmente dotati sono una rarità e, un po’ come l’eclissi, saltano fuori solo in casi eccezionali e dopo chissà quanti anni solari.

Un vero peccato.
Seppur con tutti i suoi eccessi, io Amy l’adoravo e il suo nuovo album l’avrei di certo comprato.
Un talento disperso, "un’anima fragile".

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