sabato 30 aprile 2011

Walkman: io non ti voglio, ti pretendo!

Non molti secoli fa, l’uomo inventò un oggetto chiamato Walkman.
Questa scatoletta di plastica – pressoché sconosciuta alle nuove generazioni – ha di fatto rivoluzionato il modo di ascoltare la musica, offrendo alle persone la possibilità di portarla con sé ovunque e diventando una vera e propria icona degli anni ottanta.
Anch’io ne avevo uno, precisamente un Philips nero con righe sottili in rilievo e tasti grigi. Le cuffie, invece, erano di gomma morbida, larghe e spesse, tenute insieme da un archetto metallico (non rivestito) che mi graffiava la fronte ogni volta che lo mettevo in testa, puntualmente.
La praticità e l’estetica, insomma, lasciavano un po’ a desiderare e andare in giro con quell’attrezzatura vistosa e intrecciata di fili, rendeva la somiglianza con Robocop quasi immediata.
Nonostante tutto, credo che nessun cd o file mp3 potrà mai restituirmi l’emozione di ascoltare una musicassetta con il Walkman. Ma vuoi mettere il rumore di fondo tra un brano e l’altro, il nastro magnetico che usciva matematicamente dalle bobine facendo perdere la pazienza anche a un santo, il lato A e lato B da venti minuti al massimo e il tru-tru-tru-tru improvviso alla fine di ogni lato?
Ora che il Walkman è diventato una rarità vintage – come sempre accade per le cose vecchie scansate da quelle nuove – io posso orgogliosamente affermare di averlo avuto e utilizzato (anzi, di averne abusato!) e di averci ascoltato almeno una cinquantina di musicassette. Me ne torna in mente una, di Raf, anno 1989 (cioè ventidue anni fa, ripeto v e n t i d u e): c’era dentro un brano fantastico, uno di quelli che non ti lasciano scelta, che devi obbligatoriamente cantare a squarciagola… 


venerdì 29 aprile 2011

Il Mestiere di scrivere



Quando a scuola l’insegnante di lettere, prima di restituirmi un tema, lo leggeva ad alta voce davanti a tutta la classe, arrossivo un po’ di vergogna e un po’ di rabbia. Sì perché, ogni volta, intravedevo sulle facce dei miei compagni l’espressione tipica della noia mista a seccatura, traducibile con il vocabolo eccheppalle (tutto attaccato). Avevo vagamente intuito che l’accoppiata “mio cervello esuberante più penna a sfera” poteva essere vincente, ma avrei anche gradito – allora – che quelle quattro colonne riempite d’inchiostro rimanessero una questione privata tra me e la prof.
Oggi è diverso. Oggi le cose che scrivo le condivido volentieri, anzi, ne avverto proprio la necessità. Ebbene lo ammetto: da grande (risata interna) voglio fare la scrittrice! Voglio sgonfiarmi la mente sulla tastiera di un computer, tra i caratteri alfabetici, gli spazi, le virgole e gli accenti. Voglio passare le dita tra le pagine giallastre di un dizionario dei sinonimi e contrari e bermi un sorso di tisana alla fine di ogni paragrafo. “Ma che mestiere è la scrittrice?”, mi ha chiesto mio nonno qualche sera fa. E come glielo spiego? Come faccio a far capire ad un uomo che ha passato metà della sua vita tra i carrelli di una fabbrica, che scrivere significa coltivare un’arte? Per lui il verbo coltivare si lega alle verdure che, dopo la fabbrica, ha piantato (anche per me) nella terra, la terra quella bassa, dura e sfiancante. Dovrei anche spiegargli che scrivere rilassa e cura l’umore, ma dovrei farlo osservando la sue mani callose e consumate e la sua schiena piegata dalla fatica.
Io, però, ne sono certa: voglio lavorare scrivendo.
Lo penso sempre, finchè non penso a mio nonno.
Penso che questa sia la prima motivazione che spinge qualcuno a diventare uno scrittore: il bisogno di chiamare le cose con le proprie parole private. D. Grossman