lunedì 22 ottobre 2012

Tre(nta) sono le cose che devo ricordarmi di dire...


Trent’anni come un puzzle che sta insieme per l’incastro dei suoi pezzi.
Pezzi appuntiti, pezzi arrotondati. Pezzi sporgenti, pezzi incavati. Pezzi destinati a stare insieme, chè da soli non servirebbero a nulla. Pezzi che sento tutti sulla mia pelle, appiccicati come l’adesivo di un cerotto. Pezzi che scivolano giù, uno dopo l’altro.

Il grembiule rosa a quadretti del primo giorno di scuola.
Io e Giulio sotto le coperte, nel lettone dei miei.
La mano ruvida di mio nonno poggiata sulla mia.
Il primo file salvato su floppy disk.
L’esame di maturità e io che non mi sono alzata finché la commissione non ha ritrovato il foglio con la mia versione di latino (perché i miei appunti valevano come l'oro!).
“Caffè Alicante” in libreria.
Mia cugina Tania in abito da sposa.
Gianna Nannini live ad Arezzo Wave.
Il foglio rosa.
Un uomo in divisa militare e il modo in cui mi ha guardata.
Il giorno in cui ho capito che non avrei fatto l’avvocato.
Il giorno in cui l’ho accettato.
Le mie “solite” amiche e la loro costanza nell’esserci.
La prima navigazione nel web.
Il viaggio di ritorno da Lecce, in treno, un agosto di qualche anno fa (cose da non ripetere più nella vita).
Gli anfibi marroni Dr Martens e la sensazione di onnipotenza sentendoli allacciati ai piedi.
I pranzi della domenica e il profumo del sugo di mia madre.
Il film “La vita è bella” e la potenza gentile che mi ha trasmesso.
Ogni città visitata, ogni strada calpestata, ogni cultura respirata, ogni viso nuovo e diverso incontrato, ogni lingua ascoltata.
Il primo doppio cheeseburger da Mc Donald’s.
Fiorella Mannoia al telefono della radio.
Le occasioni colte.
Le occasioni mancate.
La tesi di laurea rilegata e il virus intestinale il giorno prima della discussione.
Ogni primo bacio.
Ogni prima volta.
Il pane e zucchero preparato dalla nonna per curare ogni mia malattia.
Le persone che mi hanno ferito.
Il tempo che mi ha, sempre, curato.
Francesca che torna e il nostro bene che non se n’era mai andato.

Trenta.
E allora, Auguri Chiara.

lunedì 15 ottobre 2012

Sua Altezza, Baumgartner




È indiscutibilmente questo l’argomento del giorno.
Per 24 ore sono passati in secondo piano: il processo a Schettino, la Legge di stabilità e la presunta gravidanza di Belen.
Oggi la notizia (quella con l’articolo determinativo) plana (in senso letterale) sul record di Felix, uno con un nome che somiglia a quello di un gatto ma che ha, decisamente, un coraggio da leone.
Dunque, cosa avrebbe fatto il tizio proveniente dai monti austriaci? Nient’altro che lanciarsi nel vuoto da 39 chilometri (puoi leggere anche: t r e n t a n o v e m i l a m e t r i) appeso a un pallone di elio.
La cosa ha dello strabiliante. Non c’è dubbio.
Non solo perché il tizio, Felix, è ancora in vita (cosa per nulla scontata considerate le radiazioni, le onde d’urto e la circolazione che poteva tranquillamente fargli bollire il sangue come l’acqua prima di calare gli spaghetti) ma soprattutto perché, per la prima volta, un uomo ha infranto la barriera del suono a 57 gradi sotto zero.

Questa notizia mi piace.
Perché dimostra che le possibilità umane sono sconfinate e che le barriere sono (quasi) sempre più fragili delle menti ostinate.
Felix ha compiuto la sua impresa. Certo, ha fatto le cose “in grande”, sotto l’occhio della scienza e dei media del mondo.
Ma ogni giorno, più o meno anonimamente, milioni di altri uomini e donne compiono, anch'essi, la propria.
Alzarsi ogni mattina col sole ancora spento. Pagare un fornitore. Non lamentarsi del tempo e dei malanni di stagione. Resistere sul mercato nonostante la concorrenza cinese. Innamorarsi. Mantenere la calma. Ricordarsi a memoria il numero di una persona cara. Mettere al mondo un figlio. Affrontare la fila alle poste. Cucinare un soufflé senza farlo sgonfiare. 
Sono tutte imprese. Piccole. Grandi. Quotidiane. E di una certa utilità.
Siamo, pur sempre, umani.

Felix, dalla sua altezza, ha detto: “A volte bisogna andare veramente in alto per vedere come siamo piccoli”.


martedì 9 ottobre 2012

L'ultima visita di WhatsApp


Che scritta così sa molto di titolo di un film drammatico in bianco e nero, dove lui scompare nella nebbia e lei resta in mezzo alla strada, sola e desolata, con il viso umido di lacrime stretto tra le mani.
E invece è semplicemente quella righetta di frase che sta sotto il tuo nome e che indica l’orario esatto in cui hai chattato per l’ultima volta.

Mi urta. L’ultima visita di WhatsApp mi urta.

Perché mi ricorda quando da piccola giocavo a nascondino e c’era sempre lo stronzetto (o la stronzetta) di turno che faceva la spia e passava l’informazione del mio nascondiglio a chi faceva la conta.

Alla fine c’è sempre qualcun altro che sa cosa fai e quando lo fai.

È probabilmente questo il dazio da pagare per essere “social”
Accettare di essere invasi.
Io posso condividere tutto, in tempo reale e senza confini. 
Tu (genericamente tu) mi rubi piccoli gesti quotidiani e li rivendi nel mercato della rete.

Post telegrafico, oggi.
Perché per essere “social” devi pure essere “short”.

lunedì 1 ottobre 2012

Per la vita che verrà (puntini puntini)



Ho ritrovato una vecchia foto in bianco e nero che ritrae i miei nonni da giovani, appena sposati.
La bellezza dei loro corpi vicini è disarmante.
Hanno espressioni inconsapevoli. Naturali. Imperfette. (Perché, allora, le foto si facevano per le cornici e non per il web).
Beh, li ho guardati e mi sono pentita di non avergli mai domandato (quando ne avevo la possibilità) se avevano o meno la consapevolezza che sarebbero stati insieme per tutta la vita (perché così è stato). 
Se pensavano di essere, l’uno per l’altra, la rappresentazione corporea del loro reciproco ideale di unione.
Se hanno mai vacillato, se hanno mai avuto paura, se hanno mai stretto tra le mani la felicità.

A me l’idea di un vincolo indissolubile spaventa quasi come l’affacciarmi dal sesto piano di un palazzo. 
E allo stesso modo mi spaventano gli ideali, che troppo facilmente si sgretolano e scivolano di mano. 
Eppure penso sia meraviglioso avere la capacità di amare in prospettiva
Mi fa venire in mente il gioco delle biglie che si fa sulla sabbia. Non serve imprimere forza, basta una piccola spinta con la punta delle dita e la biglia rotola, libera, lungo la sua direzione. 
Con leggerezza e con un soffio di vento a favore.

Rubo un paio di righe alla musica.

(...) Noi rimarremo insieme
Se noi ci capiremo
Se ci perdoneremo
Gli sbagli che faremo
Noi rimarremo insieme
Se avremo volontà
Se riusciremo insieme a darci libertà
E per la vita che verrà
Tu non sarai mai sola (...)
 Jovanotti, Per la vita che verrà (Album "L’albero", 1997)

E comunque, se proprio devo essere onesta, io un uomo ideale ce l'ho...è il tipo della pubblicità di "Immobildream". 
Perchè lui "non vende sogni ma solide realtà"!