Gli sconfinati spazi del non detto affollano la mia vita da
sempre.
E sono ciò di cui facilmente mi pento.
Mi pento di aver trattenuto in gola emozioni, opinioni, sillabe,
domande, cose non capite e cose ben intese, pezzi di verità come pezzi di
canzoni.
Per pudore, per paura, per prendere tempo, o anche per
quell'incontenibile e ridicola serenità che a volte provo e che andrebbe
urlata. Ma che resiste in pancia, senza uscire fuori.
La mia lista delle cose non dette si potrebbe stendere su un
intero rotolo di carta assorbente.
E diventerebbe borfa di scusa, di ti amo, di forse
ho fatto una cazzata a non accettare quel lavoro, di come sto bene con
te con nessuno mai, di quasi quasi te darei fuoco, di ma perché non possiamo almeno provarci, di a Stephanie Forrester io volevo bene, di
la pelle chiara è nobile un par de palle, di la storia delle affinità elettive è una grande stronzata, di io però ho affinità solo con te, di ho
buttato via un sacco di tempo, di l'ho recuperato tutto in un attimo,
di lo ributterò con la stessa velocità, di secondo me la felicità sta
nelle piccole cose solo se quelle grandi sono finite.
Questo giochino del non detto mi è costato caro tante volte.
Me lo sento tutto nello stomaco, ha lo stesso peso specifico
di una bibita gassata.
Un volume d'aria che risale su fino alla gola dove si
intrecciano tutti i nodi che non ho mai sciolto.
Penso di essere nata con un autocontrollo incredibile.
Penso anche che, se non fosse stato per il medesimo self
control, ora sarei una serial killer professionista.
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