Oggi ho pranzato in un posto di
cui non posso svelare il nome.
Per due ragioni.
Prima ragione: mi sa che un nome vero
e proprio non ce l’ha (o io comunque non
l’ho capito…).
Seconda ragione: il mio
commensale sostiene che se poi la gente lo scopre, la voce gira, diventa una
moda, lo piazzano su Tripadvisor, i proprietari rivedono il menu e i prezzi sulla carta, l’accoglienza
calorosa si raffredda e l’attenzione premurosa che senti riservata solo a te si
distribuisce distratta anche ad altri. Ragionamento macchinoso ma
condivisibile.
Non vi dico il nome ma ve lo
descrivo.
Pochi posti, stufa a legna,
tovaglia a quadrettoni, bicchieri di vetro spesso (ve l’ho mai detto che ho una specie di fissazione semipatologica per
bicchieri e tazzine da caffè?), pane caldo sfornato dalla signora in
cucina, l’autunno della campagna umida intorno.
Non si
raggiunge comodamente, non appaga l’occhio al primo sguardo, non vuole
apparire più di quanto non è.
Questo posto mi piace come mi
piace tutto ciò che è rarità.
Come la genuinità negli esseri
umani, come la ferramenta ancora aperta nel centro storico, come le botteghe
vintage parigine nel Marais, come il posto finestrino nei voli low cost, come quella
traccia del disco che mai diventerà il singolo passato dalle radio.
Come tutta quella bellezza
sofisticata che sfugge ad occhi troppo pigri e cuori poco allenati.
A proposito di non – singoli, vi segnalo questo…
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